Ciao, innanzitutto grazie per quest’intervista: potresti presentarti?

Certo. Ciao, io mi chiamo Fatiha Mahi, sono nata ad Algeri, in Algeria, dove sono cresciuta, prima di venire qui in Italia.


Come sei arrivata in Italia?

Prima di abitare stabilmente in Italia, dopo essermi laureata in sociologia, ho iniziato a lavorare, presso il Ministero del Lavoro, ad Algeri.

Sono stata in Italia saltuariamente sin dal 1991 con borse di studio dell’Ambasciata Italiana, in quanto frequentavo l’Università di Lingue Straniere in Algeri, oltre ad avere svolto alcune missioni  in collaborazione con giornalisti italiani; in Italia ho avuto anche modo di tenere delle conferenze sulla donna araba e, nello specifico, sulla condizione delle donne algerine. Nel 1995 ho preso così la mia seconda laurea in lingua italiana.
Nel mio Paese non mi mancava niente, avevo tutto quello che volevo: un bel lavoro, i miei cari accanto a me, i miei amici.

Ma il terrorismo in Algeria, nel periodo che venne chiamato “decennio nero”, capovolse i miei piani. La situazione lì era drammatica, tuttavia, malgrado le atrocità e le violenze a cui tutti noi assistevamo, continuavo la mia vita, come se non ci fosse nulla. Però, quando sono iniziate le autobombe, non volevo morire per una causa che non era mia: era una guerra “senza nome”, perché non c’era un nemico esterno.

E quindi ho deciso di lasciare il Paese per fuggire da quell’atmosfera di violenza e da quel marasma che si era creato.

Sono arrivata il 13 febbraio 1997, con un visto, in Italia. La mia prima tappa è stata a Pratola Peligna in Abruzzo, presso una coppia di amici italiani, ma non trovando lavoro lì, mi sono dovuta spostare a Roma, dove sono stata accolta nel Monastero delle Oblate di Santa Francesca Romana; la Madre Superiora disse a me, di religione musulmana,“qui è casa tua, puoi restare fin quando non trovi un lavoro e una sistemazione idonea”.

Durante i quindici giorni successivi, per Grazia di Dio, ebbi un incontro che mi permise di sperare in un lavoro: una persona da me conosciuta occasionalmente a Roma, interpellò un suo amico, presidente del Consorzio Orobico Cooperativo di Abitazione, con sede a Bergamo, che stava iniziando ad operare in Senegal e che aveva bisogno di un’ assistente con buona conoscenza della lingua francese. Non mi sarei mai immaginata che questa persona sarebbe diventata mio marito.

Comunicai di questa possibilità di lavoro alla Madre Superiora, la quale diligentemente mi disse che avrebbe preso informazioni circa il Consorzio e il suo Presidente, e che si sarebbe occupata di darmi un riferimento di appoggio a Bergamo; e così fece, inviandomi presso l’Associazione Vedove Cattoliche di Bergamo, collegata alla Congregazione delle Oblate di Santa Francesca Romana, presso cui mi recai una volta arrivata a Bergamo.

La Presidente dell’Associazione Vedove, scomparsa poco tempo fa, si occupò subito di me, facendomi alloggiare in un mini appartamento posseduto temporaneamente da una volontaria della stessa Associazione  e che avrei avuto a disposizione per massimo quattro mesi.

Il colloquio di lavoro andò bene e mi restava solo da regolarizzare la mia posizione circa il permesso di soggiorno, dato che ero entrata in Italia con un visto turistico ormai in scadenza. Tramite la CIR di Roma, interpellai il Ministro dell’Interno, allora Giorgio Napolitano, per avere un permesso umanitario che mi venne concesso (un tipo di permesso concesso dall’ Italia, attualmente abolito dal Decreto Salvini, che aveva il vantaggio di non dover rompere il legame con la mia patria di origine, dove risiede una parte dei miei familiari).  

Dal Consorzio Orobico Cooperative di Abitazione, ad opera del suo Presidente, nacque l’Associazione Internazionale H&D – Habitat & Développement, tuttora esistente, volta ad operare sia in Africa che negli altri continenti, Europa compresa; ciò mi permise di completare la mia esperienza come assistente di direzione e di conoscere le problematiche di sviluppo di diversi Paesi.


Come sei diventata traduttrice/interprete?

Appena laureata in lingua italiana, ad Algeri, ho iniziato a fare qualche lavoro di traduzione per le agenzie e a collaborare con dei giornalisti italiani, che venivano in Algeria. Mi sarebbe piaciuto continuare quest’esperienza, anche al di fuori dell’Algeria, svolgendo in contemporanea il mio lavoro presso l’Associazione H&D.
Grazie alla mia formazione nella lingua araba e nella lingua francese, oltre a fare per brevi periodi la mediatrice culturale presso le scuole pubbliche, ho cominciato  a svolgere lavori di traduttrice e interprete presso il Tribunale di Bergamo, la Questura e altre Istituzioni.

In che tipo di cause vieni chiamata e quali reati coinvolgono? Chi sono le persone per le quali devi fare la traduzione in tribunale? (solo imputati o anche parti lese? di quale nazionalità sono prevalentemente? a quale livello sociale appartengono? sono migranti regolari o irregolari?)  

Tramite il  lavoro che svolgo saltuariamente presso il Tribunale di Bergamo, posso dire che vengo a conoscenza di molte situazioni riguardanti stranieri, perlopiù provenienti dal Maghreb, in gran parte senza documenti in regola per il soggiorno in Italia.  

Purtroppo i casi che, inevitabilmente, devo seguire con la mia traduzione orale o scritta evidenziano come la maggior parte di queste persone inizino a delinquere con spaccio di droghe o con piccoli furti; senza nulla togliere alla responsabilità personale di chi delinque, sicuramente per i più è proprio la condizione di “clandestinità”, o meglio di “irregolarità”,  che impedisce loro una qualsiasi attività legale regolarmente dichiarata, la causa che li rende preda della criminalità organizzata, che trova in loro della manovalanza da utilizzare soprattutto per lo spaccio.

In effetti se essere clandestino è già un reato, il passo per poi commettere dei veri reati il passo è breve; quando chiediamo loro “perché l’hai fatto?, perché spacci?, perché rubi?”, la risposta è sempre questa: “perché senza permesso e domicilio regolare non trovo lavoro”. Naturalmente questo non vale per i delinquenti cronici abituali, che si dedicano al crimine per loro precisa scelta ma ciò riguarda anche stranieri regolari o gruppi misti di italiani e stranieri.

Nel mio lavoro mi imbatto non  solo in imputati per spaccio, ma anche in imputati per truffa e furti. Capitano poi casi di persone offese, come nei casi di maltrattamento delle donne da parte dei loro mariti o compagni.

Soprattutto la violenza contro le donne mi tocca e mi turba particolarmente, perché noto un crescendo: molte donne, pur avendo avuto la forza di denunciare i maltrattamenti, quando arrivano in Tribunale si pentono perché, quando hanno fatto la denuncia, non sapevano che la giustizia avrebbe seguito il suo corso e che, nel caso di questi reati, la denuncia non si può ritirare; ciò avviene sia per quelle che vogliono tornare con il compagno sia per quelle che non vogliono tornare dal marito, perché in questi casi si procede di ufficio.

Da chi sono assistiti gli imputati in generale: da avvocati d’ufficio o da avvocati a pagamento?

Si verificano entrambi i casi.

Come si concludono i processi a cui assisti? Che tipo di condanne vengono comminate?

Assistiamo raramente a dei proscioglimenti, perché sono delitti commessi in flagranza di reato, e quindi gli imputati vengono quasi sempre condannati.

Il tipo di condanna (carcere, misure cautelari, arresti domiciliari, destinazione a lavori socialmente utili, etc) dipende dalle circostanze, attenuanti o meno, dal fatto che l’imputato sia o meno incensurato, dalla valutazione della sua pericolosità sociale, etc.

Soprattutto con i giovani che non hanno commesso gravi reati e sono alla loro prima condanna, alcuni magistrati, valutando caso per caso, privilegiano normalmente la sospensione della pena considerando il fatto che l’arresto subito, accompagnato dall’avvertimento che una reiterazione di reato porterebbe al carcere, sia già un deterrente sufficiente;  il motivo è quello di evitare che l’ambiente del carcere e la promiscuità con eventuali delinquenti abituali li possa portare su una strada pericolosa per la società e per loro stessi.

Un’ultima considerazione sul fenomeno dei migranti?

Al di là delle diverse interpretazioni circa la regolazione del flusso migratorio e delle sue origini e concause, che coinvolgono anche le responsabilità sia dei Paesi di origine che dei Paesi che con loro si rapportano per trarne benefici economici,  il dato di fatto è tuttavia che la mancata regolarizzazione di migliaia di persone che rimangono sospese in una specie di limbo civile sta creando un corto circuito fra la popolazione italiana e gli stranieri in genere, non solo quelli irregolari che alcuni, con accenti fortemente accusatori, amano definire “clandestini”.

Ho constatato una carenza dello Stato nella capacità di gestire questo fenomeno sociale che invece è stato strumentalizzato da partiti di vari colori politici e fanno rivivere slogan e atteggiamenti che rasentano il razzismo o un umanitarismo irresponsabile. “Il sociale non ha colore” e va visto per quello che è,  una società di individui consapevoli di avere in comune l’umanità, con la capacità di trarre i benefici dal vivere insieme al di là delle differenze e delle diversità.

Da qui la necessità di una politica di integrazione, non intesa come annullamento delle specificità di chi arriva in Italia, ma come formazione civica per conoscere e vivere nel tessuto italiano, regole comprese, facendo sí che le differenze di cultura e di religione non rappresentino né un ostacolo né una minaccia alla libertà di scelta di ciascuno.  

a cura di Leila Gervasoni